SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo XII (I parte)

LA CITTA' DEI ROMANTICI

d) La città di Heine

Con Heine tocchiamo uno dei punti alti della reazione romantica al Settecento e all'Illuminismo. Egli scrive nel 1824 il Viaggio nel Harz , nel 1826 Idee: Il libro Le Grand , nel 1828 (lo stesso anno delle Memorie d'Oltretomba di Chateaubriand e delle Promenades dans Romedi Stendhal) Italia. Viaggio da Monaco a Genova, e La città di Lucca, infine, nel 1830, i Frammenti inglesi.

E' in queste opere soprattutto che si possono trovare le critiche più radicali di Heine alla filosofia e al gusto urbano del Settecento, a ai loro fondamenti.

Uno di questi fondamenti era costituito dalla novità della città: il Settecento apprezzava Berlino e Pietroburgo (oppure Torino o Livorno) anche perchè erano città recenti. Heine rovescia completamente questo principio. Nel Viaggio da Monaco a Genova, egli, di Berlino, scrive:

«Berlino non è una città: Berlino è solo il luogo dove una folla di uomini, e fra di essi senza dubbio molti uomini di spirito, si raccolgono, e ad essi il posto è del tutto indifferente: e rappresentano Berlino spirituale. Lo straniero che vi passa in viaggio vede le case uniformi in lunga distesa, le vaste lunghe strade che sono fondate con tutta regola e seconda il volere di un solo, e non esprimono per nulla il modo di pensare della folla (...) sono necessari molti fiaschi di poesia se in Berlino si vuol vedere qualche cosa di più che le morte case e i Berlinesi. Qui è difficile vedere spiriti. La città ha poca antichità: è così nuova» (294)

Sono, dunque, cose che altri aveva già dette. Nel capitolo XVII di De l'Allemagne (1813), M.me De Stael scriveva così:

«Berlin est une grande ville, dont les rues sont très-larges, parfaitement bien alignées, les maisons belles, et l'ensemble régulier: mais comme il n'y a pas longtemps qu'elle est rebâtie, on n'y voit rien qui retrace les temps antérieurs. Aucun monument gothique ne subsiste au milieu des habitations modernes; et ce pays nouvellement formé n'est gêné par l'ancien en aucun genre. Que peut-il y avoir de mieux, dira-t-on, soit pour les édifices, soit pour les institutions, que de n'etre pas embarrassè par de ruines? »(295).

Ricordato che, in avanti, da cose come queste dipenderanno certe idee dello stesso Nietzsche (296), all'indietro, invece, essa si collegano a pagine come, per esempio, una di Francesco Algarotti su Pietroburgo, addirittura del 1739:

«Assai belle mostrano (...) di essere le fabbriche di Pietroburgo, chi ha ancora negli occhi i casamenti di Revel, e delle altre città di questo settrione. Ma il terreno su cui è fondata, è basso, paludoso; l'immenso bosco dov'ella siede, non è punto vivo; non gran cosa buona sono i materiali di che ella è fabbricata; e i disegni delle fabbriche non sono nè di Inigo Jones, nè di un Palladio. Regna qui una maniera di architettura bastarda tra la italiana, la francese e la olandese: domina però la olandese; e non è meraviglia. In Olanda fece il Czar, per così dire, i primi suoi studi; e a Sardam, quasi nuovo Prometeo, prese quel fuoco di cui animò di poi la sua nazione. Pare in effetto, che a sola commemorazione della Olanda egli abbia trascelto di fabbricare alla foggia di quel paese, di piantare alberi a filo delle strade, di tagliar con canali la città, i quali non hanno qui certamente quell'uso di che sono in Amsterdam o in Utrecht. Furono già dal Czar obbligati i boiardi e i signori dell'impero a lasciar Moscou, non lungi dalla quale avevano i loro poderi; a seguir la Corte, e a qua trasferire anch'essi la sede. La più parte vi hanno fabbricato palagi lungo il Neva; e ben pare che sieno stati fondati per ordine sovrano, piuttosto che per elezione: tanto le muraglie di essi fanno pelo e corpo qua e là, e piene di screpoli a mala pena si reggono. Diceva non so chi, che le rovine si fanno altrove di persè: qui si fabbricano. Conviene a ogni momento in questa nuova metropoli rifondare edifizi, e per questa cagione, e per altre ancora di non buoni materiali e del suolo infido. Che se fortunati hanno da dirsi coloro quorum iam moenia surgunt, fortunatissimi dovranno dirsi i Russi, che veggono risorgere le loro case più di una volta in vita loro. La casa, ove siamo alloggiati, è delle meglio fabbricate che sieno. Il signor Crammer, che, se non l'ha edificata, è però volontariamente venuto ad abitarla in Pietroburgo, se ne prende ogni pensiero. Ella è situata sul lungarno, diciam così, del Neva, e dentro ha tutta l'aria di un'abitazione inglese» (297)

La contestazione della nuova Pietroburgo, dunque, qui avviene ancora su basi di natura più estetica che storica: una cosa è dire che Pietroburgo non è funzionale e altro è dire, come M.me De Stael di Berlino, che Berlino non ha passato. Tuttavia la pagina di Algarotti andava ricordata soprattutto in quanto incunabolo di quell'idea della città costruita per volontà di uno solo piuttosto che per una volontà collettiva (298): M.me De Stael, Heine e tutto il Romanticismo rifiuteranno la logica di simili gesti arbitrari, e in nome della storia, ambiranno alla città come costruzione sociale ed in progress. Heine lo chiarisce subito quando contrappone a Berlino la più antica Monaco (quantunque la pagina sia anche ironica:)

«Se si volesse paragonare (Berlino) con Monaco, si potrebbe notare con ragione che quest'ultima è il contrario. Monaco è senza dubbio una città fondata dal popolo stesso, da generazioni susseguentisi, il cui spirito è ancora oggi visibile in molte opere di costruzione; come nella scena delle streghe di Macbeth, si vede una fila di spiriti da quello rosso scuro del Medio Evo, che armato di corazza si affaccia alle porte delle chiese gotiche, fino a quello luminoso dei nostri tempi che ci tiene di fronte uno specchio in cui ognuno si contempla con piacere. In questa sfilata è la riconciliazione: il barbarico non ci turba più e neppure il barocco ci urta, se noi li consideriamo come principio e come transizione necessaria. Noi restiamo seri ma non di cattivo umore dinanzi ad un duomo barbarico che si leva su tutta la città in forma di cavastivali e gli spettri e le ombre del Medio Evo nasconde in sè. Con così poco malumore, anzi più, con piacevole emozione, contempliamo i castelli dei più tardi periodi, la pesantezza dello scimmiottare tedesco la leziosa affettatura francese, le sontuose costruzioni barocche tutte ghirigori di fuori, più bizzarramente decorate al di dentro, con stridenti, variatissime allegorie, e arabeschi dorati e stucchi e pitture (...). Come ho detto, tutto questo non ci disturba, contribuisce anzi a farci sentire il presente e il suo giusto valore; e se noi contempliamo le nuove opere che si levano accanto alle antiche, è come se ci venisse tolta una parrucca dal capo e il cuore fosse libero dei suoi lacci di acciaio» (299)

Pagina, dunque, romantica quant'altre mai, il cui storicismo è, inoltre, così maturo che in essa un'ormai indiscussa rivalutazione del Medio Evo può benissimo convivere con un'accettazione di fatto dello stesso "moderno" barocco: è forse la prima volta che certe affermazioni non si risolvono in altrettante speculari negazioni, che anzi, per Heine, il positivo nasce proprio dalla riconciliazione, in nome della storia, dei vari stili, antichi e moderni. Inutile poi, ancora una volta ricordare, a proposito specialmente del concetto di stile storico come transizione necessaria, il passo di Chateaubriand a Villa Adriana sul "merlo gotico": sulla stessa base avviene anche il recupero del barocco da parte di Heine. La città del Settecento è ormai lontanissima.

Neanche a dire, poi, che ad Heine Berlino si presenta, non solo fastidiosamente nuova, ma anche noiosamente uniforme. Questa uniformità colpisce Heine al punto ch'egli ci torna sopra anche in un'altra occasione, oltre quella veduta:

«Come mi sarei raccapezzato nella grande Berlino dove una casa assomiglia all'altra come una goccia d'acqua o un granatiere somiglia all'altro, e dove non c'è verso di trovare i propri conoscenti se non si hanno in testa i numeri delle rispettive case?» (300)

Ovvio, pertanto, che anche a questo Heine berlinese sia ben presente (come a Goethe a Francoforte), come a Stendhal nel 1828) l'altra condizione fondamentale di romanticismo, vale a dire l'estraneità dello "scrittore" rispetto alla grande città:

«Nessuna città sente meno il patriottismo locale di Berlino. Migliaia di poveri scrittori l'hanno festeggiata in prosa ed in versi: e pure in essa non ha per questo nessun gallo cantato, e nessun pollo è stato cotto per loro, e li si è sempre ritenuti "sotto i tigli" miserabili poeti, dopo come prima» (301)

Vedremo come questa situazione, non solo si corrobori, ma addirittura abbia modo di precisarsi nelle pagine di Heine su Londra, vale a dire su di una vera propria città industriale (città industriale che Berlino, in questo momento, ancora non è).

Se Heine comunque, è certamente contrario alle città nuove e senza storia, ancora più contrario lo trovano operazioni tese ad immettere in quelle città la storia quasi per decreto. Meglio il settecento di Federico di Prussia (pensa Heine), che osa fondare una Berlino ex-novo, che il malinteso "storicismo" dei successori, che impiastricciano la città di "antichità" false:

«La città ha poca antichità: è così nuova! Eppure questo nuovo è già così vecchio, così appassito, così morto! In gran parte, come è stato detto, la città è sorta non dal sentimento della massa, ma di alcuni isolati. Il grande Federico fra questi pochi è il migliore: ciò che egli trovò era solo la base ferma, da cui la città ebbe il suo carattere particolare; se dopo la sua morte niente altro fosse stato costruito, sarebbe rimasta un monumento storico di quel prosaico magnifico eroe che aveva assimilato in sè la raffinata mancanza di gusto, la florida libertà di pensiero, il bene e il male del suo tempo. (Invece si è per esempio costruita la nuova chiesa di Werder, il duomo gotico in nuove proporzioni) che per ironia è posto fra le costruzioni moderne, per mostrare allegoricamente come apparirebbe puerile e stupido se le vecchie tramontate istituzioni del Medio Evo si volesse di nuovo farle risorgere in mezzo alle espressioni del tempo nuovo» (302)

Tale rispetto per la necessità costituita dalla storia, fa sì, d'altra parte, che Heine non accetti nemmeno l'utopia storica, sia pure cristallizzata in un'opera di architettura: egli ripete per ben due volte, nella stessa opera cui appartengono queste pagine su Berlino, che, per esempio, il Duomo di Milano "manterrebbe il suo valore anche se destinato ad altro uso" (posto che il Cristianesimo potrebbe finire, anzi, secondo lui, è già in via di estinzione), (303) superando, così, anche l'altra ideologia settecentesca, "utopica" appunto, della conservazione d'un manufatto in senso, per così dire, funzionalistico, e di cui sono espressione, poniamo, de Brosses e Sade quando, di fronte al Pantheon, ne lamentano entrambi la trasformazione in chiesa cristiana. Certo, questo disappunto di de Brosses e Sade potrebbe significare soltanto la laicità d'un certo tipo di razionalismo (se non, addirittura, una piccola spia "libertina"), ma è comunque sicuro che questa laicità, una volta tradotta in pratica, non potrebbe non cadere in una sorta di vuoto o di silenzio progettuali, se non proprio nella tristezza della solita museificazione: lo storicismo di Heine pare invece ovviare di fatto a questi pericoli, limitandosi a ipotizzare uno degli infiniti nuovi contesti possibili del Duomo di Milano (304).

E con la stessa acutezza critica Heine, a questo punto, colpisce al cuore anche quell'altro aspetto della poetica urbana settecentesca, che prevedeva la strada come suite di pezzi pregiati in mostra - i palazzi nobiliari o altoborghesi - ciascuno inteso come "valore" autonomo rispetto agli altri, ed anzi, con tutti gli altri in programmatica concorrenza. Heine sembra essere perfettamente consapevole di tutto questo quando, sulle strade di Berlino, ci regala quanto segue:

«Soltanto i beniamini della fortuna possono individuare lo stato d'animo degli abitanti (di Berlino) quando contemplano le lunghe file di case che si sforzano a star lontano l'una dall'altra, come gli stessi uomini, irrigidendosi in un astio reciproco. Solo una volta, in una sera di luna, mentre tornavo a casa un pò tardi da Lutter e Wegener vidi quel duro stato d'animo disciogliersi in un mite sentimento, e le case che una volta stavano l'una di fronte all'altra in atteggiamento ostile, si guardavano commosse cristianamente; e, riconciliatesi, erano per precipitarsi l'una nelle braccia dell'altra; così io povero uomo che passavo per quelle strade temetti non ne restassi schiacciato. Alcuni troveranno ridicolo questo timore, e anch'io ne risi quando il giorno dopo passai per le stesse vie con spirito calmo, e le case di nuovo sbagliavano prosaicamente» (305)


(294) JOHANN HEINRICH HEINE, op. cit., pp. 151-152.

(295) M.ME DE STAEL,De l'Allemagne(1813), Paris, Garnier, s.d., cap. XVII, pp. 86-87

(296) "(...) Abbiamo bisogno della storia, perchè il passato scorre in noi con cento onde; noi stessi non siamo altro che quello che ciò che noi in ogni istante sentiamo di questo continuo fluire (...) Certamente, in contrade riposte, in vallate poco conosciute, entro comunità chiuse, potè più facilmente conservarsi un venerabile frammento di antichissime mentalità, e qui lo si deve rintracciare; mentre è, ad esempio, improbabile fare simili scoperte a Berlino, dove l'uomo viene al mondo lavato e stirato (...)" (cfr. In quali paesi si deve viaggiare, in Il viandante e la sua ombra, cit., p. 113). Ma qualcosa del genere lampeggia anche in un brano su Genova (in La gaia scienza, cit. p.168-169) "(...) Se si osserva il moso con cui sono costruite le città del nord, è la legge a imporsi e il piacere della legalità universalmente diffuso, nonchè l'obbedienza: s'indovina in tutto questo quell'interiore disporsi all'uguaglianza e inserirsi in un ordine che deve avere dominato l'anima di tutti i costruttori. Ma qui (a Genova), ad ogni angolo di strada, trovi un uomo che sta per se stesso, che conosce il mare, l'avventura e l'Oriente, un uomo che è avverso alla legge e al vicino...".

(297) FRANCESCO ALGAROTTI, Viaggi di Russia(1739), cit., p. 36-37.

(298) E' un'idea che, a proposito di Pietroburgo, sta anche in GIACOMO CASANOVA, op. cit., vol. IX, p. 171.

(299) JOHANN HEINRICH HEINE, op. cit., pp. 153-154.

(300) JOHANN HEINRICH HEINE, Idee il libro Le Grand(1826), trad. it. BRUNO MAFFI, in Germania e Inghilterra (Impressioni di viaggio), Milano, Rizzoli, 1956, p. 134.

(301) "Mi ha colpito la natura e il carattere del pubblico di una grande città. Vive in una perpetua frenesia di guadagno e di sperpero e ciò che chiamiamo "buon umore" non si lascia nè produrre nè comunicare; tutti i divertimenti, perfino il teatro, devono solo distrarre e la grande inclinazione del pubblico che legge i giornali e i romanzi deriva appunto da ciò, che quelli sempre e questi spesso portano distrazione nelle distrazioni. Credo anzi di aver notato una certa ripugnanza per le opere poetiche o almeno in quanto sono poetiche, repugnanza che appunto er questi motivi mi pare del tutto naturale. La poesia desidera, anzi esige, raccoglimento, isola l'uomo anche contro la propria volontà, s'impone con insistenza e nel vasto mondo è tanto incomoda come un'amante fedele (JOHANN WOLFGANG GOETHE, Un viaggio in Svizzera nell'anno 1797, in Opere, cit., vol. II, p.1274). Da notare che il tono con cui viene sviluppata l'osservazione, è ancora leggero. Fra pochi anni diventerà drammatico. Comunque, Heine affronta Londra munito anche di cose come questa di Goethe - sicuramente. Ed è da tutte queste percezioni che nasceranno, non solo buona parte della poesia (e della grandezza) di Baudelaire, ma anche certe esortazioni, ancora una volta, dello stesso Nietzsche (cfr. Ai poeti delle grandi città, in Il viandante e la sua ombra, cit., p. 65).

(302) JOHANN HEINRICH HEINE, Italia (1828-1829) Viaggio da Monaco a Genova, cit., p. 65

(303) Ibid. p. 152-153.

(304) Ibid. p. 212.

(305)


Theorèin - Gennaio 2008